Una prima parola che la vita monastica può dire al MONDO D’OGGI è una parola che è chiamata a testimoniare, alla luce della compassione di Dio e della vittoria di Cristo sulla morte, la BONTÀ DEL MONDO e DELLA STORIA.
Cosi’ scriveva p. Lafont nel 2006:
“non si tratta in effetti di essere semplici e contemplare (ma dove?) un mondo senza difetto. Vorrei dimostrare che il mondo presenta una bontà, si potrebbe dire, costitutiva, ma che vi è una norma per l’uso di essa. Tale norma fa parte della sua bontà, ma da essa dipende che la sua stessa bontà si compia o scompaia”.
La vita dei cristiani, e dei religiosi, è chiamata ad essere a servizio di un mondo la cui bontà ha origine nella creazione ed ha un valore escatologico, un mondo “che bisogna aiutare in qualche modo a nascere nella sua verità e nel suo valore”.
La vita del monaco, nella sua assiduità con la Parola di Dio e i suoi criteri, ma anche nella sua assiduità, mediante la conversione, con quel mondo nascosto nel proprio cuore, può offrire uno sguardo di discernimento sulla storia e sul mondo. Ed è uno sguardo sapienziale, capace di comunione, uno sguardo che sa ricomporre in unità ogni diversità, senza eliminarla. Questo sguardo matura attraverso l’incessante processo di unificazione interiore, in cui tutta la complessità della vita, le componenti della persona, ogni forma di alterità trovano un punto di sintesi in rapporto al mistero di unità-diversità esistente in Dio.
Un esempio di questo ‘sguardo unitivo’ si può trovare in una esperienza mistica di Benedetto, narrataci da Gregorio magno nel suo II libro dei Dialoghi. Al termine del suo racconto sulla vita di Benedetto, prima di narrare la morte del santo, Gregorio Magno colloca una visione singolare: di notte, il monaco “volgendo al cielo lo sguardo”, vide un intenso raggio luminoso e “come raccolto in quest’unico raggio di sole”, “il mondo intero fu posto davanti ai suoi occhi”. La capacità unificante dello sguardo di Benedetto, spiega Gregorio, deriva daun cuore che vede tutto in Dio e che è ormai dilatato alla misura stessa di Dio. È uno sguardo che sa vedere il mondo con gli occhi di Dio è anche uno SGUARDO PIENO DI COMPASSIONE.
Si può affermare che s.Benedetto è un ‘umanista’, in quanto considera la persona non come una astrazione, un ideale disincarnato, ma come realtà concreta, individuale, che ha un valore in se stessa. Quello della RB, è un UMANESIMO EVANGELIZZATO, e, in particolare ‘monastico’
A partire dalla propria esperienza quotidiana di CONVERSIONE, il monaco, di fronte al mondo e nella Chiesa, è chiamato ad essere TESTIMONE del perdono di Dio. Nella tradizione monastica, una delle figure evangeliche più amate è il PUBBLICANO della parabola di Luca: cosciente della propria miseria, il monaco si sente solidale con ogni uomo e donna che fanno l’esperienza del peccato e che sanno attendere quella salvezza che non può venire dalla propria giustizia (la logica del fariseo), ma solo dalla infinita misericordia di Dio.
La seconda parola che il monaco è chiamato a dire al mondo e alla Chiesa d’oggi, soprattutto a partire da uno stile di vita in cui alcune priorità emergono con evidenza e chiarezza, è quella del primato della signoria di Dio contro ogni idolatria e il primato dello Spirito contro ogni assolutizzazione del proprio agire, anche all’interno della Chiesa e nella vita di ogni cristiano.
“Forse oggi ‘le teologie’ – scrivevano i vescovi italiani in un messaggio per il XV centenario di s. Benedetto – ‘i discorsi su Dio’, per quanto importanti, non bastano più. Ci vogliono esistenze che gridano silenziosamente il primato di Dio. Ci vogliono uomini e donne che trattano il Signore da Signore, che si spendono nella sua adorazione, che affondano nel suo mistero, sotto il segno della gratuità e senza umano compenso, per attestare che egli è l’Assoluto. Tale è stata l’esistenza di s. Benedetto; e tale è chiamata ad essere quella dei monaci. Ma tale deve essere la vita dei cristiani. ‘E questa la testimonianza più urgente da dare, in un mondo in cui il senso di Dio si oscura e c’è bisogno come non mai di riscoprire il suo volto”.
Oggi la vita monastica è chiamata a restituire, se così si può dire, a tutta la Chiesa, questa consapevolezza del primato del Dio rivelato da Gesù Cristo (e dei valori che lo testimoniano), primato che investe tutti gli ambiti dell’agire e dell’essere della Chiesa.
L’assenza di ogni scopo esplicito che rivela Dio come lo scopo nascosto e segreto delle nostre vite. Il fine della vita cristiana è solo di esser con Dio. Gesù dice ai discepoli: ‘rimanete nel mio amore’. I monaci sono chiamati a rimanere in questo amore…
Tre atteggiamenti che la vita monastica è chiamata a testimoniare:
rimanere nella speranza, accogliere la debolezza, attendere nella vigilanza.
1.Oggi una dimensione che deve essere nuovamente messa in relazione con la speranza è il tempo.
La vita monastica può offrire una modalità di relazione con il tempo che apre un varco alla speranza. Infatti nella vita monastica il tempo è colto nella sua TOTALITÀ, come espressione della quotidianità e delle varie tappe della vita; un tempo che deve essere ABITATO e non subìto o rincorso, e tanto meno fuggito. Il ritmo della giornata, con la qualità dei suoi momenti e delle sue ore, trova il suo luogo di speranza nella liturgia: è un TEMPO PLASMATO DALLA LITURGIA, come incessante sguardo sul Cristo crocifisso e risorto, è tempo strappato alla banalità, alla disperazione, al non senso.
2. Certamente oggi la vita monastica nelle sue forme concrete vive una sorta di precarietà, che condivide con l’insieme della vita religiosa. Ma perché non dare un valore positivo alla precarietà accogliendola come un paradigma evangelico, come il disvelarsi di un Dio che agisce nella debolezza, come la via dei piccoli e dei poveri che affidano totalmente la loro causa al Signore, che ogni giorno domandano a lui la grazia della sua misericordia? Non è un invito alla mediocrità, alla mancanza di progettualità, ma ad assumere questo tempo così incerto, così precario per la vita religiosa, come kairos (tempo opportuno), all’interno del quale può ricevere trasparenza la logica della croce, quella parola che è debolezza e stoltezza gli occhi degli uomini, ma forza e sapienza agli occhi di Dio (cfr. 1Cor 1, 18ss.).
T.Merton scriveva: “Nel mondo moderno il monaco è una persona marginale, che non ha più una collocazione precisa nella società (….); l’adottare una forma di vita che è essenzialmente non rivendicativa, non violenta, una vita di umiltà e di pace, costituisce di per sé una affermazione della propria posizione”.
3. La vita monastica può riproporre uno degli atteggiamenti essenziali che il cristiano è chiamato a vivere nella storia: attendere nella vigilanza. Spesso viene utilizzata una immagine per esprimere lo stare del monaco nel mondo di oggi: quella della SENTINELLA che vigila.
‘E il testo di Isaia 21, 11-12:
“Mi gridano da Seir: ‘Sentinella, quanto resta della notte? Sentinella, quanto resta della notte?’ La sentinella risponde: ‘Viene il mattino, poi anche la notte; se volete domandare, domandate; convertitevi, venite”.
La sentinella rimane ferma al suo posto; il suo punto di vista deve essere in alto per scrutare l’orizzonte. Ma non deve muoversi, anche se questo è faticoso. Però deve trovare un punto saldo d’appoggio per poter mantenere questa scomoda posizione.
La vita monastica, attraverso il suo ritmo quotidiano, ci abitua a rimanere in un luogo limitato ma aperto ad orizzonti vasti, allena i nostri occhi a scrutare la storia attraverso le Scritture, ci abitua ad accogliere ogni giorno il mattino e la notte, ci educa al discernimento, ci pone di fronte alla incompiutezza del nostro mondo, ci prepara ad un incontro.
“Questo può far sì che i monaci possano essere riconosciuti dai meno disattenti e dagli uomini in sincera ricerca, come cristiani coerenti col loro battesimo. Non tanto accreditati per il peso delle loro qualità personali o per autorevolezza dottrinale, e neppure per una investitura ministeriale, ma semplicemente per la genuinità e freschezza della loro specifica coerenza battesimale” (Don Giuseppe Dossetti)..